Recensione di Irene bernardini sul libro "Alla fine resta l'amore" di Claudia Mehler

09.06.2013 16:47

"I BAMBINBI MENTONO SEMPRE "
di Irene Bernardini 6 gennaio, 2013 
(luielei.vanityfair.it)


State per leggere una cosa buttata giù di corsa. Ho poco tempo ma ho bisogno di condividere con voi la mia notte insonne. Per colpa, o merito, di un libro: “Alla fine resta l’amore”, scritto da Claudia Mehler per Mondadori. Io di solito crollo alla seconda pagina del mio libro serale, ma ieri ho tirato ta......rdissimo: mi sono obbligata a spegnere anche se mancavano poche pagine alla fine, ma lì, al buio, è stato anche peggio. Occhi sbarrati perchè pensavo a S., la bambina di sette anni attorno a cui ruota tutto il racconto – e chi racconta è sua madre. S. fa la seconda elementare. Una bambina come tante: la scuola, la ginnastica e poi a casa con mamma, papà e fratellino, in giardino a giocare con i cani. Ma, per puro caso, la mamma scopre che S. è stata oggetto di molestie sessuali, anzi no, chiamiamo le cose con il loro nome, di violenza sessuale da parte di un bidello. Da quel momento niente è più come prima. Il dolore, la rabbia, lo smarrimento, la paura, le azioni, la ricerca di aiuto: niente va come quei genitori avrebbero sperato, come io che leggevo avrei sperato. I tempi insopportabimente lunghi delle indagini, l’approccio burocratico di chi dovrebbe farsene carico a dispetto della stessa buona volontà dei singoli, il conflitto perverso tra la necessità di proteggere la bambina e l’obbligo di non dire, di non fare, per non compromettere l’iter giudiziario, la violenza dei comportamenti sfuggenti e omertosi di chi – la maestra, il dirigente scolastico- avrebbe potuto, avrebbe dovuto schierarsi senza se e senza ma dalla parte di quella bambina oltraggiata, lo sflilacciarsi dei rapporti sociali, qual tirarsi indietro pavido e ipocrita, più o meno consapevole, di tutta la comunità. La solitudine, l’immensa solitudine. La mamma di S. (ma il suo nome di autrice è uno pseudonimo perchè nessuno deve riconoscere la vera S.) scrive bene, si capisce che è una donna colta, che ha familiarità con i pensieri e con la scrittura. Eppure ciò che più mi ha coinvolto, anzi travolto, leggendo il suo straziante diario è proprio l’assenza di retorica, di pietismo, l’assenza di ogni indugio nella scabrosità o nell’emozionalismo, la tensione costante a tenere i nervi saldi, a conservare la lucidità, a coltivare la normalità ogni volta che l’assoluta crudele anormalità della tragedia in corso ne lasciava affiorare un piccolo spazio. Ho passato la notte in bianco per la rabbia. Ho sentito nella mia carne l’impotenza della mamma di S. Ho fatto la notte in bianco per lo sdegno e per la vergogna: faccio parte di una comunità che non sa proteggere una bambina di sette anni. Di una società che veste i bambini come “piccoli Corona crescono” e le bambine come aspiranti veline, che li applaude quando, smorfiosi, cantano come i grandi le canzoni dei grandi, che li lascia spadroneggiare nelle nostre case come piccoli tiranni, che li celebra come piccoli capolavori, che negli atti legislativi e nelle convenzioni internazionali li definisce pomposamente “soggetti di diritto” di cui è obbligatorio acquisire l’”opinione”, una società che però, quando uno di loro scoperchia il verminaio della perversione pedolfila, tanto per cominciare non gli crede: “si sa”, come dice il dirigente scolastico del libro di Claudia Mehler, “i bambini mentono sempre”. Adesso devo mettermi a lavorare. Stasera finirò quel libro. Voi invece per favore cominciatelo, così almeno potrò parlarne con voi.

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