La ventisettesima ora

09.10.2013 21:29

Pubblichiamo il commento al post sulla scrittrice inglese Roshi Fernando. Claudia (nome di fantasia) ha ascoltato il racconto della sua bambina, vittima di un pedofilo.

È terribile (ed eloquente) il collegamento che Roshi Fernando fa tra la rivelazione in età adulta dello stupro subito da bambina, che suscita l’ammirazione dei suoi figli per il coraggio avuto, e il successivo sogno in cui è sua figlia piccola a venire abusata ritrovandosi nell’impossibilità di trovare le parole per dirlo.

Nasce da un’accorata riflessione sul fatto che non può essere la violenza subita a “connotare” l’identità di una persona, e di quanto nella realtà ciò sia difficile. È un passaggio che rivela in maniera chiarissima quanto sia pesante e perniciosa la colpa di cui si carica la vittima, bambino o bambina che sia, che non ha gli strumenti mentali per inquadrare ciò che sta accadendo e proteggersene. Quanto grave sia l’isolamento e l’impotenza in cui precipita, di cui la vergogna è un riflesso. Quanto sia complicato – se non impossibile – per anni e anni, riuscire a trovare le parole per dirlo.

 

L’impossibilità per un bambino di parlare è il rovescio della medaglia di una società che non vuol sentire, di una società che persino di fronte all’evidenza, si ostina a negare l’esistenza di questi fenomeni e la loro diffusione.

Se il punto per la vittima è essere capace di non legare tutta la sua futura crescita e ricchezza umana all’esperienza della violenza, per la collettività non può che essere il “prendersi in carico” le parole delle vittime. Le loro denunce. Mentre la verità è che nessuno le vuole ascoltare. Chi abusa delle donne e dei bambini li vede come oggetti da utilizzare e poi buttare via.

Perciò “prendersi in carico le vittime e le loro parole” vuol dire almeno tre cose fondamentali: prima di tutto credergli, e predisporre deglistrumenti adeguati perché le loro testimonianze vengano raccolte e valutate da consulenti e magistrati con una competenza specifica; regolamentare nel tempo la loro partecipazione al processo, tenendo conto delle esigenze e della vulnerabilità psicologica di un minore; rendere effettivo il perseguimento giudiziario di chi si macchia di questi crimini, rendendo vincolanti le norme dei più importanti protocolli per l’ascolto dei minori in caso di abuso sessuale. Perché uno stato che non dispone degli strumenti adeguati non può che agire in maniera velleitaria e inefficace, al di là di tutti i proclami.

Infine, predisporre campagne serie di prevenzione nelle scuole, e di sensibilizzazione. Anche per insegnare ai genitori le parole da dire ai bambini.

Parlarne (tutti insieme) consente alle vittime di trovare le parole per dirlo. È il silenzio che uccide. Quel non essere creduti. L’avvertire intorno a sé il disagio di chi a prescindere nega.

Non è cosa nuova alla nostra società l’odiosa e sistematica messa in dubbio della “credibilità” della vittima di un reato sessuale. Parole (e denunce) che ancora (nel 2013) nascono inquinate dal pregiudizio. Distorte dalla paura e dalla complicità di chi vuole la vittima in qualche modo colpevole.

Mi chiedo se sia un’utopia immaginare un mondo dove la persona offesanon debba più vergognarsi e “discolparsi”. Dove la sua “credibilità” sia addirittura presunta. Non so se davvero siamo pronti ad ascoltare le parole delle vittime.

Con mia figlia io l’ho fatto e questo è stato il primo passo per consentirle di riprendersi in mano la propria vita. Con tutta la ricchezza e la bellezza che l’accompagnano. 

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